Senigallia (AN) 2013
Alessia Carleschi
Psicologa Psicoterapeuta – sede di Roma Pro Icyc
Giuditta Borghetti
Psicologa Psicoterapeuta – sezione di Firenze Pro Icyc
Come ogni anno ci ritroviamo a “fermare il pensiero” dopo un Convegno intenso che ha visto il tema: L’adozione percorso di crescita “fra due mondi”…
Questi “due mondi”, metaforicamente “genitori e bambini/ragazzi”, stanno crescendo di anno in anno e ciascuno di Voi è alle prese o presto sarà alle prese, con la fase critica che “gli psicologi” chiamano adolescenza.
Cosa significa adolescenza?
La definizione classica cita “L’adolescenza (adolescĕre, ‘crescere’) è quel tratto dell’età evolutiva caratterizzato dalla transizione dallo stato infantile a quello adulto dell’individuo”. Quindi diventa per la persona che cresce un ‘momento di bilancio’.
Per tutti in questo faticoso processo, si guarda al passato per definire la “propria identità”.
Cosa avviene in un ragazzo/a, non più bambino che cresce e si apre a queste domande?… “chi sono e dove sto andando?”
Nel vissuto di un ragazzo che ha affrontato anche l’adozione è prima di tutto necessario fare i conti con le proprie origini, oltre che con la necessità di “separarsi’ dai ‘genitori”, che è tipica di ogni adolescente nel vivere quotidiano.
Nello specifico parlare di quotidianità ci rimanda con il pensiero al concetto di “normalità”, un concetto sicuramente molto controverso, ma che richiama una condizione spesso sentita e desiderata da coloro che hanno iniziato ad intraprendere il percorso dell’adozione.
Il bisogno di sentirsi famiglia, di fare le cose “normali” che fa una famiglia, è un desiderio sano e legittimo, di tutti i genitori e ancor più dei genitori adottivi, che hanno dovuto percorre strade alternative per soddisfare il loro desiderio di “genitorialità”. E’ importante però non dimenticare mai che, come in un gioco di “figura sfondo”, nella vita della “Famiglia Adottiva” talvolta ad essere in primo piano è la parola “Famiglia”, con tutte le caratteristiche, dinamiche, relazioni e conflittualità tipiche di un qualsiasi nucleo famigliare, talvolta, invece, ad essere in primo piano è la parola “Adottiva”, portando in evidenza le peculiarità e le specificità che questa condizione comporta. L’inserimento del bambino in famiglia è uno di quei momenti, ed è un periodo estremamente delicato, ad alto apprendimento per tutti i protagonisti.
Il passaggio da coppia a famiglia, inoltre, richiede la sperimentazione di ruoli genitoriali in alleanza tra loro, la ricerca e la condivisone di scelte educative ed organizzative per un bambino/ ragazzo che cresce. Può capitare che nella vicenda adottiva l’attribuzione dei ruoli non sia “scontata” quanto nella genitorialità biologica.
Nella genitorialità adottiva i ruoli sono più paritari fin da subito. Dal punto di vista del bambino il periodo dell’inserimento in famiglia è principalmente caratterizzato dal senso di disorientamento. Spesso i genitori spinti dall’affetto che nutrono, tendono a trasporre sul bambino i loro stati d’animo di gioia e felicità per la nuova famiglia che si sta creando, in realtà nel bambino, sono sì presenti tali emozioni, ma a prevalere è la paura e l’ansia per lo stravolgimento che sta vivendo. I bisogni più importanti per lui sono quello di sentirsi accolto ed ascoltato, di poter sperimentare relazioni esclusive, che gli consentano di iniziare a costruire un senso di fiducia, in relazioni non più di abbandono.
Nel periodo di inserimento, il bambino ha bisogno di capire come i genitori reagiscono ai suoi comportamenti e se essi assomigliano alle figure di riferimento passate. E’ bene che i genitori abbiano molto chiaro che il “figlio”, così come l’adolescente, esprime i propri bisogni attraverso il comportamento e che un bambino che ha sperimentato soprattutto nei primi anni di vita, una situazione di deprivazione affettiva, non può cambiare improvvisamente il proprio modo di entrare in relazione con le persone, ma che ha bisogno di tempo e di una estrema gradualità.
E’ fondamentale che i genitori garantiscano un graduale adattamento a tutte le nuove abitudini di vita ed alle routine quotidiane, come mangiare, dormire, giocare, ”andare a scuola”…
Uno dei rischi in cui spesso si può incorrere avendo a che fare con bambini che hanno subito importanti deprivazioni, è quello di assumere un atteggiamento compensativo, (ad esempio con il cibo, con i giochi…) ma purtroppo questo atteggiamento, che pur nasce dalle migliori intenzioni, spesso si rivela un boomerang per coloro che lo attuano.
Il compito prioritario del genitore è quello di fare attenzione a ciò che si propone al bambino in termini di ritmi di vita, esperienze, giochi, apprendimenti, tempi e spazi, proprio al fine di garantire un inserimento il più morbido possibile. Sembra paradossale parlare di gradualità in un contesto come l’adozione, che per sua stessa natura implica un cambiamento “radicale”, ma seppur repentino, tale passaggio può essere reso meno brusco, facendo attenzione, ad esempio a mantenere, soprattutto per i primi tempi, le abitudini acquisite nei momenti di routine fisiologica, con la consapevolezza che i comportamenti tipici della cultura di appartenenza dei genitori adottivi verranno acquisiti in seguito spontaneamente.
A tutti i genitori, adottivi e non, quando i loro figli crescono e si trovano nella fase dell’adolescenza, sembra di salire, per usare una felice metafora di Chistolini, insieme ai loro figli su “un giro di montagne russe”, giro che per i ragazzi è “caratterizzato da pieni (ciò che si è), semi-pieni (ciò che si sta diventando) e vuoti (ciò che non si è più). Compito centrale di questo periodo della vita è quello di riuscire ad integrare in modo positivo tutti i cambiamenti, (fisici, cognitivi, psicologici, relazionali), così da avere un’immagine di sé coerente e sufficientemente integrata.
Ma come affrontano i ragazzi adottati questa delicata fase della vita? Quali specificità presentano?..
Se da una parte le ricerche affermano che, mediamente, i ragazzi adottati mostrano maggiori difficoltà dei loro coetanei non adottati, dall’altra ci dicono anche che la maggioranza degli adolescenti adottivi “sta bene”.
Cosa “significa star bene”..?….Uno dei compiti specifici evolutivi e sani di tutti gli adolescenti è quello di definire la propria “identità”, ma per poter fare questo è necessario “confrontarsi”, più o meno consapevolmente con la propria “storia”, non è possibile capire chi siamo senza guardare da “dove” veniamo.
E’ evidente come questo passaggio naturale e scontato per tutti i ragazzi, non lo sia altrettanto per chi alle spalle ha un percorso esistenziale complesso, discontinuo e talvolta molto pesante.
Un secondo compito evolutivo importante è l’integrazione dei diversi livelli di sviluppo (fisici, cognitivi, emotivi). In questa fase della vita, come in nessun’altra osserviamo oscillazioni molto violente nel percorso di crescita. Assistiamo alla continua e spesso repentina alternanza di richieste di attenzione e prese di distanza, di passaggi da osservazioni estremamente “profonde” a comportamenti infantili, regressivi … Nei ragazzi adottati è frequente che queste disarmonie siano più accentuate, rendendo sbigottiti i genitori. Le esperienze traumatiche, primo fra tutte l’abbandono, incidono fortemente sull’immagine di sé, sul senso del proprio valore, questo comporta che parti del sé vengano come “accantonate”, talvolta “negate” e ciò rende molto più faticoso e complesso il lavoro di integrazione.
Un altro aspetto da non sottovalutare è la “relazione” con i genitori. Ogni adolescente per procedere verso la costruzione della propria identità ha bisogno di prendere le distanze da loro, dal loro modo di pensare, di affrontare la vita e allo stesso tempo ha bisogno di sapere che può contare su di loro e che loro ci saranno sempre. Questo passaggio estremamente “faticoso” per i genitori, che sono messi a dura prova dalle continue conflittualità ed ambivalenze, diventa particolarmente delicato quando il figlio è stato adottato. In questo caso, infatti, il senso di estraneità si fa più intenso e l’assenza di legame biologico può catalizzare l’attenzione rispetto al conflitto evolutivo. Il genitore potrebbe sentire di “non essere riuscito” a costruire un legame abbastanza forte, fraintendendo il fisiologico bisogno di separazione, con un “mancato senso di appartenenza”.
Infine non possiamo non fare cenno ai grandi mutamenti fisici che l’adolescenza porta con sé. Lo sviluppo, il cambio di voce, l’altezza sono tutti segnali visibili di una trasformazione in atto che obbliga il ragazzo e la ragazza a ristrutturare completamente la propria immagine corporea, procurando forti sentimenti di insoddisfazione per come si è e di insicurezza per come si diventerà. Nell’adozione ed in particolare nell’adozione internazionale questo passaggio è fortemente condizionato da due fattori importanti: le caratteristiche somatiche e il fatto di non potersi identificare con naturalezza con i propri genitori per proiettarsi nel futuro e fare congetture su come il proprio corpo si trasformerà.
Fin qui abbiamo sorvolato con “volo radente” l’influenza che l’adozione ha sui compiti specifici dell’adolescenza. Nell’adolescenza adottiva la prima cosa da considerare è l’età del bambino al momento del suo ingresso in famiglia. I processi di differenziazione da un lato e di integrazione dall’altro, cui si è fatto cenno poc’anzi, possono mutare molto a seconda che l’ingresso in adolescenza sia più o meno ravvicinato rispetto all’inserimento in famiglia, è quindi questa una caratteristica molto importante da considerare quando si tenta di dare una lettura di alcuni comportamenti in atto.
L’altra caratteristica è il rapporto che il ragazzo/a ha con la propria storia e la ricerca delle proprie origini. Come abbiamo detto in precedenza, il confronto con essa è un passaggio ineludibile in un momento in cui si sta ridefinendo la propria identità.
E’ frequente che nell’adolescente adottato prevalga un atteggiamento “evitante” rispetto alle tematiche dell’adozione, ciò non significa che, una volta “fuori dalle tempeste dell’adolescenza”, non si sentano in grado di riprendere una riflessione sulle proprie origini, pertanto è opportuno avere sempre un atteggiamento equilibrato fra il sollecitarli rispetto al confronto con la loro storia ed il rispetto, in taluni, momenti, del loro bisogno di “proteggersi” da essa.
Il processo fin qui descritto assume dei colori “brillanti” ma con sfumature spesso impercettibile e complesse, se un figlio biologico può allontanarsi, in modo più o meno confuso, da qualcuno a cui è appartenuto, un figlio adottivo deve fare un doppio lavoro: prendere le distanze dai propri genitori adottivi ma anche spesso ed inconsapevolmente da quelli biologici, a cui non è mai appartenuto.
Il problema della separazione è centrale perché può mettere ansia; “questi ragazzi hanno costruito e sedimentato” un senso di attaccamento verso la famiglia adottiva, da cui si sentono finalmente rassicurati e gratificati, poi una nuova tappa evolutiva li porta “via” emotivamente, verso il mondo adulto.
Cosa fare? Prima di tutto, imparare a pensare che i nostri figli non si “svegliano alla mattina e all’improvviso sono adolescenti”: siamo dentro a un cammino graduale, in cui l’aver lavorato bene prima, durante l’infanzia, aiuterà a mantenere aperto il dialogo anche durante la “tempesta adolescenziale”. Come tutti i rapporti di “amore” e di “legame reciproco” attraverso il “dialogo” , lo scambio, il conflitto elaborato, i genitori possono oltrepassare i confini e stare accanto ai figli che crescono con le loro fragilità comuni a tutti i ragazzi ma differentemente da altri carichi di due “radici” … i due mondi che si “abbracciano” e si “integrano pian piano” (il passato e presente che si mescolano per costruire insieme il futuro possibile per i vostri figli).
Se un piccolo germoglio di nespolo, con difficoltà a crescere, viene innestato in un biancospino, le nespole che cresceranno su questo ramo apparterranno al biancospino; saranno nespole di biancospino, il germoglio avrà difficoltà ad integrarsi, difficoltà a fiorire, a succhiare nutrimento sufficiente dall’albero che lo ha accolto, ma poi fiorirà e darà i suoi frutti.
Fortunatamente molti fragili germogli sono stati innestati in piante più robuste, superate le prime difficoltà di integrazione il germoglio è diventato un ramo in più nell’albero che lo ha accolto.
Il germoglio innestato ora appartiene al nuovo albero, si nutre dalle sue radici, dal suolo che lo accoglie, è un ramo uguale agli altri che a volte dà fiori e frutti diversi.