I bambini grandi e la sfida dell’adozione
Cosa significa “bambini grandi”? In generale si intendono bambini in età scolare anche se per le coppie giovani è già grande un bambino di tre anni.
L’adozione di questi bambini costituisce una grossa sfida, soprattutto nell’adozione internazionale.
Sono bambini che potrebbero essere stati vittime di negligenza, di abusi fisici (spesso generati in famiglia), hanno probabilmente conosciuto parecchie separazioni e/o trasferimenti di casa, istituti, casa famiglia, presentano insicurezza affettiva più o meno grande, disistima profonda, sindrome dell’abbandono.
Con l’adozione internazionale, questi bambini vivono anche una rottura culturale, un cambiamento di clima, di cibo, di lingua, di musica, di tratti fisici, di costumi, di abitudini di vita.
E’ per questo che possono incontrare problemi di identificazione personale, vivere una “doppia-identità”, possono presentare aggressività, mutismo, iperattività, regressione, rivolta, contestazioni dell’autorità ed un bisogno intenso di tornare alla ricerca delle loro origini.
Nonostante tutto ciò, questi bambini possono recuperare sicurezza, fiducia e serenità con l’appoggio di genitori adottivi che hanno presente tutto ciò e cercano di affrontarlo con umiltà e tenacia. I bambini grandi arrivano con un passato più o meno difficile, ma anche con grandi risorse personali.
Con l’aiuto dei loro genitori adottivi e, quando necessario, con un aiuto più specializzato dei servizi sociali e medici, la maggior parte di loro si integra,recuperando il ritardo psico-fisico e diventano dei bambini “normali”.
Di solito, subito dopo l’adozione, il bambino e la sua nuova famiglia conoscono un periodo quasi idilliaco, tutto nuovo, tutto bello o quasi. Poi, c’è una fase di regressione.
Il bambino si abitua al fatto che i suoi bisogni di prima necessità sono soddisfatti, ma prende anche coscienza che non rivedrà più la sua famiglia biologica, i suoi amici di orfanotrofio, ecc.
E’ quindi un individuo nudo, solo, non ha più riferimenti, non gli resta sostanzialmente niente del suo ambiente di origine.
A questo punto può avere dei comportamenti che i genitori non comprendono, parla solo nella sua lingua, rifiuta i legami affettivi che sta intessendo con i genitori, i fratelli, gli amici. Avrà delle collere, manifesterà la sua opposizione, cercherà di affermare se stesso.
Potrà passare da una fase di profonda disistima ad una di autonomia e affermazione. Per quanto difficili, sono segni positivi di adeguamento.
Da un lato prova una grande sofferenza per avere perso il suo passato, le sue abitudini, il suo paese, dall’altro soffre di non essere stato generato nel suo nuovo ambiente, di essere differente dagli altri bambini.
Il bambino adottato quando è già grande deve vivere allo stesso tempo tutte queste difficoltà, tutte d’un colpo. Se molto sostenuto, riuscirà ad adattarsi, ma occorrerà molto tempo affinché abbia una relazione “normale” coi suoi nuovi genitori.
Questo è quello che solitamente si sente o si legge quando si parla di adozione di “bambini grandi”. Questo è quello che tutti noi sappiamo, o dovremmo sapere quando ci avviciniamo all’adozione.
Quando ci si avvicina all’adozione si sa che non si vanno ad accogliere bambini che provengono da college (ammettendo che siano ragazzi meno problematici), ma dalla strada, e, soprattutto, bambini che hanno subito l’abbandono!
Penso che ognuno di noi, almeno una volta, si sia soffermato a pensare cosa questo possa significare. Facciamo tragedie se ci lascia il fidanzato o la fidanzata, per non parlare delle separazioni o dei divorzi, molti non riescono più ad amare un’altra persona e ricostruirsi un futuro. E tutto questo avviene da adulti, con tutti gli strumenti affettivi e razionali per affrontare una separazione, un dolore, un’umiliazione.
Cosa può significare per un bambino essere abbandonato? Come si può minacciare un bambino di “lasciarlo dove lo si è trovato?” o “di rimandarlo dove lo si è preso?”. Su quali basi potrà costruire un rapporto d’amore, di fiducia se manca la base fondamentale: la certezza che questi genitori nuovi o futuri (come ho visto scritto da un bambino) non lo lasceranno mai!
Non dobbiamo dimenticare che i soggetti deboli sono loro, non noi, chi perde tutto sono loro. Noi abbiamo la nostra casa, la nostra famiglia, la nostra lingua, la nostra cultura, il nostro modo di ridere, il nostro modo di piangere, di comunicare i sentimenti, il nostro lavoro (luogo di pena ma anche di gratificazione spesso, o comunque di distacco dai problemi). Per loro è una fatica comunicare con noi, capire i nostri gesti, è una fatica comunicare con i nostri parenti, con i compagni, con le insegnanti, che sono tante.
Negli ultimi tempi, diverse coppie si sono trovate in difficoltà, stanno affrontando momenti difficili e chiedono un supporto che ci trova impreparati. Alcune volte siamo rimproverati di aver voluto far vedere solo i lati positivi delle nostre adozioni senza evidenziare i veri problemi. Viene rimproverato che nei convegni si parli sempre in positivo e non si discutano i problemi. Non è vero.
Quando le coppie raccontano le loro storie, raccontano le vicissitudini, i problemi che hanno attraversato e stanno attraversando, ma, contemporaneamente, nel ritrovarsi insieme, scatta di nuovo la speranza che sia possibile costruire una famiglia, scatta la consapevolezza che la famiglia c’è, sebbene con i problemi. Si sa che non si è soli perché altri hanno attraversato la stessa solitudine, le stesse paure, le stesse difficoltà.
Sì, nei nostri convegni viene esaltato il fatto che la nostra solitudine è diventata una famiglia normale, con i problemi dei figli che crescono, che amano la scuola o che non danno buoni risultati negli studi, che litigano con gli amici, che ci contestano, che invadono i nostri spazi, che toccano le nostre cose, che distruggono i nostri mobili.
Sì, una famiglia normale nella sua specificità. Parlare di adozione e come affrontarla è una cosa difficilissima, vi sono mille sfaccettature, mille variabili ed è impossibile tracciarne un profilo credibile per tutte le situazioni.
Come sempre le cose complicatissime si possono riportare a schemi semplici che permettano di dare una lettura del fenomeno anche se non pretendono di dare soluzione alle singole situazioni. Mi aiuto con una metafora su bruchi e farfalle utilizzata da un pedagogista (di cui non ricordo il nome) per parlare di educatori e ragazzi portatori di handicap o disagio sociale, che mi sono permesso di rielaborare per parlare di adozioni, spero che l’autore non me ne voglia.
Bruchi e farfalle
Quando cerchi di afferrare una farfalla ti resta un po’ di polverina sulle dita e una farfalla morta in mano.
Lo stesso capita quando pensi di contenere la spontaneità di un bambino, di capire l’essenza del suo essere e del suo vissuto, magari solamente con un formulario, o una metodologia razionale.
Un po’ di polverina e una triste cosa morta.
Le farfalle di solito non si allevano.
Se si vuol vederle volare in giardino bisogna piantare fiori, cioè creare le condizioni favorevoli alla loro crescita e sopravvivenza.
Non si può “integrare” un bambino adottivo in modo diretto, magari con i soli atti amministrativi. Bisogna creare le condizioni affinché il bambino, i genitori, i suoi compagni, la maestra, il controllore del bus, la commessa del negozio si sentano parte di un’estesa solidarietà.
Piantare fiori, aspettare le farfalle e poi godere dei loro movimenti e della loro libertà.
All’inizio del percorso adottivo compaiono bruchi, mai farfalle.
Bisogna allenare l’occhio a non vedere il bruco, ma la farfalla che verrà.
I genitori hanno progetti, i servizi fanno diagnosi, si creano aspettative, ma l’osservazione si limita al bruco e impedisce di vedere la farfalla.
Il bambino capisce se lo guardi come bruco o come farfalla e si comporta di conseguenza.
Formare un genitore all’adozione vuol dire allenarlo a vedere farfalle.
Poi ogni tanto i bruchi non diventeranno farfalle e molte farfalle sono velenose. Ma le metafore restano, appunto perché sono metafore e non realtà.
Probabilmente Padre Alceste ci aveva abituato a vedere “farfalle”, tutti noi agli incontri, convegni o semplici cene abbiamo sempre visto farfalle, nelle nostre case abbiamo da subito accolto farfalle. La metamorfosi naturale di bruco, crisalide-farfalla per noi era semplicemente una questione di tempo.
Eravamo sicuri che la crisalide era già una farfalla che aspettava solamente il momento opportuno per volteggiare libera in cielo.
Non avevamo nessuna specifica preparazione o predisposizione ad accogliere bambini grandi, vedevamo comunque “farfalle”. Forse il segreto è tutto qui, abituarci a guardare il bruco e vedere farfalle.
Certo se si osserva soltanto il bruco che, appena è in famiglia, si trasforma in crisalide, racchiuso in un bozzolo senza vita apparente, che non comunica con l’esterno, che sta morendo per rinascere, e non si vede la farfalla, il bruco è veramente un animaletto difficile da amare.
In questo ultimo anno nell’avvicinare le coppie, eravamo convinti di mostrare farfalle ma gli altri vedevano bruchi, non avevamo capito che mancava quel pizzico di magia che solamente padre Alceste riusciva a metterci. Il miracolo che padre Alceste ogni anno ripeteva ha permesso a tante coppie di crescere e di avvicinarsi ai bambini ”grandi” che sono i più bisognosi di affetto e che nessuno vuole, non solo in Italia o in Cile ma in quasi tutti i paesi dai quali provengono i bambini adottabili.
Quello che più colpisce è che l’età media dei bambini adottati sembra legata a scelte del paese d’origine e non al maggiore o minore impegno da parte degli enti autorizzati o dei servizi sociali che non riescono, o non sono in grado, di sensibilizzare le coppie ad aprirsi a questo tipo di adozione. Al contrario molto spesso, servizi sociali ed operatori degli enti autorizzati sembrano più spaventati delle coppie e orientati quasi a scegliere “nell’interesse” della coppia e non del minore.
Pensiamo insieme cosa fare e come collaborare con gli enti autorizzati per preparare le coppie ad accogliere bambini grandi, ed in particolare al dopo adozione. Ricordando quello che diceva sempre il Padre: “Apriamo il cuore” e……. Buone farfalle a tutti.
Enrico