SPUNTI DI RIFLESSIONE DA PARTE DI “UN’ADDETTA AI LAVORI”
Monica Mattonelli
Insegnante, assistente sociale
Sono un’insegnante di scuola primaria ormai da oltre 10 anni e prima di questa esperienza ho lavorato 6 anni come operatrice sociale con bambini che presentavano problematiche in diverso modo incidenti sulla loro vita scolastica in generale. Dico in generale poiché ritengo fondamentale non focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’aspetto cognitivo, poiché ogni bambino è molto di più di un mero processo di apprendimento e perché è ormai largamente diffusa nella pratica educativa la consapevolezza che dietro uno scarso rendimento, sussistono ostacoli nella maggior parte dei casi ascrivibili a situazioni conflittuali di diverso tipo e non solo. A tale proposito voglio citare il contributo di Dario Ianes, psicologo del Centro Studi Erickson di Trento, il quale ci fornisce una descrizione accuratissima delle possibili difficoltà degli alunni, le quali possono collocarsi sia a livello organico, sia a livello familiare, ambientale, contestuale, di background sociale e culturale. La risposta della scuola a tale complessità consiste nella realizzazione di un’offerta formativa “realmente inclusiva” data dalla speciale normalità, intesa come «le aspettative, gli obiettivi, le prassi, le attività rivolte a tutti gli alunni, nessuno escluso, nell’ordinaria offerta formativa, che però si arricchiscono di una specificità tecnica non comune, fondata sui dati scientifici e richiesta dalle nuove complessità dei bisogni educativi speciali» (Ianes, 2001). In questa ottica non si fa altro che specializzare le normali pratiche educative e didattiche, rendendole più efficaci e rispondenti alle qualità di particolari bisogni educativi. “La speciale normalità riesce a rispondere a due fondamentali bisogni dell’alunno in difficoltà: un bisogno di normalità, di fare le stesse cose degli altri, nelle normali attività didattiche, un bisogno cioè di appartenenza, di identità, di conformità in senso positivo, di accoglienza, accanto però a un bisogno di specialità, di poter fare le cose che la sua specifica condizione, anche molto complessa, chiede per poter funzionare al meglio delle sue possibilità in senso educativo-apprenditivo”( tratto da Bisogni educativi speciali e inclusione). Dopo questa premessa l’autore passa all’identificazione dei bisogni educativi speciali, utilizzando come riferimento il modello ICIF ( International Classification of Functioning) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che dovrà essere compilato dall’equipe pedagogica, cioè dall’insieme degli insegnanti che operano nella classe in cui è presente un disagio, al fine di orientare l’azione didattica. Ho voluto riportare uno stralcio di quella che rappresenta una delle attuali riflessioni che indirizzano la prassi educativa e didattica in materia di integrazione scolastica, perché ritengo sia significativa per tracciare un esempio di come opera la scuola oggi, in una società in continua trasformazione, senza addentrarmi oltre in quelli che potrebbero risultare dei tecnicismi inutili, a chi si trova a fronteggiare l’ansia di come gestire l’ingresso nella scuola del proprio figlio/a. Per gli addetti ai lavori la multiformità delle situazioni è ormai un fatto assodato, nelle classi è presente una varietà tale di bambini che si manifesta, nel modo più evidente, nella diversità dei colori che li contraddistinguono, tuttavia, al di là delle differenze più o meno palesi, essi hanno in comune il fatto di essere pur sempre dei bambini, con stesse esigenze di comprensione, affetto e autorealizzazione; dice il grande Gianni Rodari “Voglio che oggi non pianga nel mondo un solo bambino, che abbia lo stesso sorriso il bianco, il moro, il giallino”. A noi spetta il compito di creare un ambiente accogliente che permetta ad ognuno di esprimersi secondo le proprie inclinazioni, che faccia leva sulla motivazione attraverso la realizzazione di relazioni significative, non solo tra alunni e insegnanti, ma anche e soprattutto tra bambini della stessa classe, per allargarsi poi ad altri contesti, in modo graduale senza forzature, nel rispetto dei tempi di ognuno. Questi sono principi fondamentali della pratica educativa e didattica che prescindono da ogni specificazione o tipologia di disagio, e il bambino adottato non ne è immune. La scuola italiana ha ormai fatto propria una trentennale esperienza di inclusione della diversità, grazie alla legge 517 del 1977 che ha determinato l’eliminazione delle scuole speciali (gloria a chi ne ebbe la felice intuizione), favorendo lo sviluppo di un’ottica della normalizzazione, che non trova eguali né in nessun altro paese né in nessun’ altra istituzione si occupi di infanzia e adolescenza; questo è uno dei motivi per cui non parlerò né ora né mai di un ipotetico bambino adottato, ma di Marco, Elisa, Juan, Steven, Venice, ecc. e delle loro classi, in cui trovo bambini veri, concreti, unici e irripetibili, che si amano, che litigano, che giocano, che collaborano, che si isolano, che non leggono, che sanno oppure no le tabelline… Nei loro discorsi ci sono mamme, papà, nonni, fratelli insegnanti, amici, istruttori, catechisti, giochi, programmi TV e quant’altro. Tutto un mondo che la scuola non può sottovalutare: l’ambiente sociale e la stretta collaborazione da instaurare con famiglie e altre istituzioni, una rete di persone e servizi che deve essere fitta di relazioni significative e funzionali alla crescita di ogni bambino. Questo e molto di più si chiama INTEGRAZIONE SCOLASTICA, un argomento vasto che difficilmente può esaurirsi in un solo intervento. Per il momento vorrei porre l’attenzione sulla seguente riflessione di Rousseau: “Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile regola di tutta l’educazione? E’ di non guadagnare tempo, ma di perderne” (J.J. Rousseau in Emilio o Dell’Educazione) perche ritengo lasci intendere che educare è un po’ anche osare contro le nostre stesse aspettative, le quali il più delle volte inducono a privilegiare la ricerca di risultati immediati, trascurando quanto sia importante dedicare del tempo per conoscere e ascoltare i nostri figli/alunni, affinché possano esprimersi al meglio, assecondando i loro propri interessi, potenzialità e aspirazioni.