Trevi (PG) 2010
Marco Chistolini e Marcia Rovaretti
Psicologi, psicoterapeuti
Il bambino adottato porta a scuola, con la sua semplice presenza, una storia particolare ed un modo peculiare di essere famiglia. Nonostante tutti i cambiamenti della struttura familiare verificatisi negli ultimi anni, l’idea prevalente di famiglia è quella di due adulti che hanno generato biologicamente dei figli.
Chiaramente affrontare il fatto che vi sono famiglie che non si sono costituite sulla base del legame di sangue, ma sul reciproco bisogno-desiderio di essere ed avere dei genitori, comporta, necessariamente, trattare l’argomento dell’abbandono. Tutti coloro che si occupano di adozione sanno molto bene quanto l’esperienza dell’abbandono costituisca per i bambini una ferita profonda e duratura che comporta un duro colpo alla propria autostima e all’immagine di sé. L’inevitabile vissuto che consegue all’essere stati lasciati da chi li ha messi al mondo è quello di sentirsi “sbagliati”, brutti, non degni di essere amati.
È evidente, pertanto, che una questione così importante e carica di implicazioni affettive non può essere trattata e risolta unicamente a scuola. Spetta ai genitori, adeguatamente aiutati, essere protagonisti principali di questo percorso. Ciò detto, resta indubbio che la scuola può fornire un’importante contributo (o complicare molto le cose!), semplicemente perché a scuola, soprattutto nel primo ciclo elementare ma non solo, si parla molto di storia personale e di famiglia.
Vediamo allora come gli insegnanti possono trattare questo complesso argomento. Diciamo, innanzitutto, come esso non deve essere affrontato. Non è opportuno:
- Banalizzare la storia del bambino sottolineando che non è l’unico ad avere avuto un percorso di vita “accidentato” (ci sono coloro che hanno i genitori divorziati o malati, eccetera). Banalizzare, annacquare in un quadro più generale di problematicità vuol dire non riconoscere la specificità di cui è portatore quel bambino e, soprattutto, vuol dire non accogliere i suoi personali sentimenti!
- Altrettanto improprio è l’approccio esclusivamente e, fintamente, positivo: “sei stato fortunato ad avere due mamme e due papà!”. Approccio che nega la drammaticità dell’abbandono e la sofferenza connessa ad esperienze di istituzionalizzazione, deprivazione affettiva e, a volte, di ulteriori eventi traumatici.
- Del tutto da evitare sono le spiegazioni che fanno ricorso a fattori prettamente concreti di natura socio-economica: “Sei stato abbandonato perché i tuoi genitori erano poveri e non avevano di che nutrirti”; oppure: “Ti hanno lasciato per assicurarti un futuro migliore che loro non erano in grado di darti”. In questa accezione l’abbandono è presentato come evento forzoso, causato da fattori esterni ed oggettivi e contrassegnato da un atteggiamento consapevole ed altruista dei genitori biologici che si sono separati da lui per il suo bene. Senza voler negare l’importanza dei fattori socio-economici che, soprattutto in certe realtà del mondo, giocano un ruolo significativo, siamo convinti, sulla base della nostra esperienza e della diretta conoscenza di tanti Paesi di origine dei bambini, che una simile impostazione sia senz’altro semplicistica e fuorviante. Come vedremo tra poco altre sono le ragioni fondamentali che stanno alla base di un evento tanto drammatico e “insensato” qual è l’abbandono di un figlio.
- Altra spiegazione da evitare, almeno che non se ne abbia sicura cognizione, è quella del bambino adottato perché rimasto orfano. Infatti, ammesso che un bambino abbia subito la morte di entrambi i genitori, di solito, se il tessuto familiare è sano, è difficile che vada in adozione potendo contare su nonni o zii disponibili ad occuparsi di lui. Chiaramente non vogliamo negare che ci siano bambini adottabili in quanto orfani, soprattutto in Paesi falcidiati da guerre e malattie, quanto che questa spiegazione viene spesso utilizzata perché semplice e oggettiva, dimenticando che solo in una percentuale minoritaria di casi è rispondente alla realtà e che, comunque, per un bambino non è affatto facile accettare che tutti i suoi familiari siano deceduti lasciandolo solo.
- Infine, si deve fare attenzione a non alimentare i molti pregiudizi che gravitano intorno all’adozione (bambini rubati o comprati, veri genitori contro genitori adottivi, ecc.).
Se quelli elencati sono gli approcci dal evitare, qual è quello corretto che deve essere applicato? Per rispondere a questa basilare domanda dobbiamo domandarci quali sono, relativamente a questo tema, i bisogni di un bambino adottato. Ebbene, riteniamo che siano due le dimensioni che devono essere trattate:
- La prima è relativa al bisogno di capire perché vi sono bambini che vengono abbandonati.
- La seconda concerne la necessità di comprendere cosa sia l’adozione, quali le sue regole, le conseguenze, gli attori, eccetera.
Partiamo dal primo punto. È unanimemente riconosciuto che tutti i bambini adottati si pongono, in modo implicito od esplicito, diretto od indiretto, una domanda fondamentale: “perché sono stato abbandonato?”. La necessità di porsi questo interrogativo o, in alcuni casi, lo strenuo tentativo di non porselo, cercando di non pensare a questo tema, è dovuta al fatto che l’abbandono, non solo determina delle dolorose conseguenze in quanto priva il bambino della fondamentale possibilità di avere una relazione di attaccamento privilegiata indispensabile per crescere bene, ma costituisce una potentissima informazione sull’identità di chi l’ha subita: “chi sono io, quanto valgo, cosa posso aspettarmi dalla vita, se chi mi ha messo al mondo non mi ha voluto?”. Va considerato il fatto che, inconsciamente, il bambino sente che quanto gli è successo è dipeso da lui, dalla sua incapacità di farsi amare. Ciò accade perché i bambini sono, per limitate capacità cognitive, auto-referenziali, vale a dire riportano a se stessi quanto di bello di brutto gli accade. Pertanto, non trovare un’altra, convincente, risposta a questo quesito equivale a mantenere aperta una ferita che indebolisce alla base la costruzione dell’identità del soggetto ed il suo equilibrio psichico.
Il bisogno primario di un bambino adottato è, dunque, quello di comprendere le ragioni che hanno portato i suoi genitori biologici a rinunciare a lui. Ma parlare di abbandono vuol dire parlare di capacità genitoriale, vuol dire domandarsi quali “meccanismi” rendono alcune persone desiderose e capaci di essere genitori sufficientemente adeguati, mentre altre risultano essere gravemente incompetenti.
Ebbene, è ampiamente condivisa dalla comunità scientifica la convinzione che la capacità di essere buoni genitori dipenda, in misura sostanziale, dalle relazioni esperite con gli adulti allevanti. Per dirla in modo molto semplice si può affermare che la capacità di amare e proteggere i nostri figli è strettamente connessa al modo in cui siamo stati amati e protetti dai nostri genitori (o da altri adulti che si sono presi cura di noi). Poi, indubbiamente, intervengono anche fattori ambientali quali gli aspetti sociali, economici, culturali, ecc., che rappresentano elementi di aggravio o sostegno alle risorse affettive e relazionali del genitore. Pertanto è semplicistico e scorretto sostenere, come molti fanno, che nei Paesi del “terzo mondo” i bambini vengono abbandonati per povertà o per motivi culturali. In realtà povertà e fattori culturali assumono un peso significativo quando vi è una condizione di “fragilità psico-affettiva” dei genitori, causata da un percorso di vita caratterizzato da mancanti o distorte relazioni affettive. Se così non fosse il fenomeno dell’abbandono dovrebbe essere appannaggio pressoché esclusivo dei Paesi poveri o di determinate culture. Non è questo che accade. Gravi distorsioni nelle funzioni genitoriali sono spesso presenti anche nei Paesi più ricchi e culturalmente “evoluti”, a cominciare dal nostro. Ed è altrettanto vero che non tutti i poveri (che, non dimentichiamolo, costituiscono i due terzi della popolazione mondiale!), abbandonano o maltrattano i loro figli. È importante aver ben presente che il prendersi cura dei propri cuccioli è un’istanza psico-biologica innata, frutto della selezione naturale, molto potente ed indispensabile per garantire la continuità della specie. Quando un soggetto non sviluppa tale attitudine è perché qualcosa di gravemente anomalo è accaduto nel corso della sua crescita.
Questa spiegazione dà all’abbandono un significato che solleva il bambino da qualsiasi responsabilità consentendogli di capire perché egli non è stato tenuto dai suoi genitori biologici e perché non verrà lasciato da quelli adottivi (i suoi genitori adottivi non lo abbandoneranno perché hanno maggiori risorse dovute ad una storia più fortunata e “nutriente”). Naturalmente non vogliamo affermare che tutti coloro che hanno avuto una storia difficile e dolorosa saranno dei genitori fallimentari, la vita riserva possibilità di riscatto e rapporti compensativi, interni o esterni all’entourage familiare, possono rappresentare opportunità fondamentali di recupero, ma siamo certi che alla base di una insufficiente capacità genitoriale vi sia sempre una storia di relazioni inadeguate.
Il secondo elemento segnalato attiene all’opportunità di chiarire gli aspetti fondamentali dell’istituto dell’adozione. Sappiamo, infatti, che molto spesso vi sono intorno a tale realtà molte “leggende metropolitane” e pregiudizi vari. È facile, sentir parlare di bambini comperati o scelti dai loro genitori adottivi, di genitori biologici che sono i “veri” genitori, mentre quelli adottivi non lo sarebbero e altre simili sciocchezze. È quindi importante precisare che l’adozione è uno strumento che esiste da secoli e che, oggi, ha quale finalità principale quella di assicurare una famiglia ad un bambino che ne è privo. Va chiarito, in modo ovviamente non pedante, qual è l’iter dell’adozione, quali sono le sue regole e i protagonisti principali. Si dovrà quindi spiegare che quando un bimbo è privo di una mamma e di un papà e non ci sono altri familiari in grado di prendersi cura di lui in
modo corretto, vi sono delle persone che si occupano di trovare per lui due nuovi genitori. Parimenti quando una coppia desidera adottare un bambino deve percorrere un iter finalizzato a verificare le sue risorse e a realizzare l’abbinamento più adeguato con il bambino in attesa di una famiglia. Quindi dovrà sottoporsi a numerosi colloqui e accertamenti mirati a conseguire questo obiettivo. In definitiva, senza bisogno di entrare nei dettagli legislativi e procedurali, sarà sufficiente assicurarsi che i bambini comprendano nelle sue parti essenziali cosa significa essere adottati e come questo evento si realizza. Fondamentale chiarire che l’adozione è un evento definitivo ed irreversibile e che la mamma ed il papà adottivi sono, e resteranno per sempre, a tutti gli effetti i genitori del bambino adottato.
Le difficoltà a scuola dei bambini adottati
Innanzitutto va detto che per operare la valutazione e progettare l’intervento nei confronti di un bambino adottato che presenta difficoltà scolastiche è richiesta molta attenzione, competenza e un approccio “complesso”, capace di includere numerosi e diversi fattori. In sintesi possiamo dire che l’intervento dovrà basarsi sull’analisi dei seguenti elementi:
- L’approfondimento delle problematiche scolastiche presentate, chiarendone le caratteristiche, l’insorgenza, la durata, le circostanze in cui si manifestano, gli eventuali cambiamenti, eccetera.
- L’anamnesi del minore, con particolare attenzione al periodo precedente l’adozione (per quel che è possibile sapere) e alla fase immediatamente successiva all’inserimento nella famiglia adottiva, in quanto utile per inferire con quale bagaglio il bambino è arrivato nel nuovo contesto familiare, con particolare attenzione ad esperienze specificamente traumatiche.
- Una valutazione delle relazioni familiari, analizzando sia le specifiche dinamiche relazionali connesse al tema scuola, sia la qualità più generale dei rapporti all’interno del nucleo, ivi comprese, ovviamente, le aspettative dei genitori nei confronti del figlio.
- La definizione delle caratteristiche psicologiche del minore mediante le informazioni fornite dai genitori, il colloquio diretto e, l’eventuale, utilizzo di strumenti testali specifici.
- L’accertamento delle capacità cognitive del soggetto, con strumenti finalizzati a definire non solo il quoziente intellettivo globale, quanto le specifiche risorse cognitive e le caratteristiche dei processi di pensiero del soggetto.
- La valutazione della eventuale presenza di disturbi specifici dell’apprendimento.
L’insieme delle informazioni così raccolte consente di orientare in modo corretto l’intervento, operando eventuali, successivi, approfondimenti in una o più delle aree considerate, evitando di imboccare strade improprie ed inefficaci. Va sottolineato, infatti, come molto spesso la valutazione e l’intervento proposti dallo specialista sono molto più connessi alla sua formazione e competenza che non alle esigenze del caso in questione. Accade così che il neuropsichiatra si orienterà su interventi di riabilitazione, lo psicologo clinico verso una terapia individuale e quello sistemico per un trattamento familiare, e via di questo passo, ciascuno inquadrando le difficoltà presentategli a partire dal suo bagaglio di conoscenze. In un preoccupante “adattamento” del problema alle competenze del tecnico e non viceversa.
A nostro avviso è invece necessario che un ambito così complesso, dove si intersecano fattori differenti, sia affrontato con un approccio multi-disciplinare nel quale, a partire da una valutazione completa ed articolata, possano essere attivate professionalità diverse in base alle problematiche realmente evidenziate.
Come è facile comprendere, infatti, problemi di relazione hanno importanti ricadute sull’apprendimento (si pensi alla possibilità che ha di seguire le spiegazioni della maestra un bambino impegnato a chiacchierare o a litigare con il compagno), così come problemi di apprendimento finiscono per influenzare la qualità delle relazioni del soggetto con i coetanei e con gli insegnanti ed il suo comportamento in classe (un soggetto che fatica a comprendere ed imparare ha più probabilità di distrarsi e/o sentirsi frustrato e di attivare comportamenti disturbanti). Ovviamente anche la qualità delle relazioni familiari può essere causa o effetto di difficoltà di apprendimento, in un circolo vizioso di rinforzi negativi che va, solitamente, a creare una intricata matassa difficile da dipanare se non si assume una prospettiva complessa e multi fattoriale quale quella sopra descritta.
Coerentemente con quanto affermato l’intervento dovrà essere caratterizzato da un approccio articolato e di rete, focalizzato su quel “sistema” che, nella fase di valutazione, è stato individuato come significativo per l’insorgenza e la cura del disagio. Certamente, quale che sia l’eziologia del disturbo, sarà necessario il coinvolgimento del nucleo familiare. Coinvolgimento da operarsi con modalità diverse a seconda dei casi e delle problematiche presentate. Ci sembra importante sottolineare l’utilità di muoversi in modo coordinato con le altre istituzioni che si occupano a vario livello del bambino.
Il profilo funzionale
La valutazione ha quale finalità quella di stendere un “profilo funzionale” del bambino che si articola su varie aree e che costituisce la base su cui costruire il programma d’intervento. Esso si articola su diverse aree:
- L’area linguistica
- L’area psicologica
- L’area scolastica
La realtà dei minori adottati suscita particolare interesse perché essi presentano spesso caratteristiche simili che danno luogo a profili funzionali che hanno frequenti punti di contatto. Dalla nostra esperienza, infatti, risulta che questi bambini hanno generalmente un quoziente intellettivo (Q.I.) globale nella norma, senza che si evidenzino ritardi di tipo cognitivo né nell’area verbale né in quella non verbale, ma in alcuni casi i punteggi ottenuti nell’area del ragionamento si collocano al di sotto della media, con un pensiero molto concreto e legato ai propri vissuti, del qui e ora, e difficoltà nella produzione di elaborati centrati sulla propria storia o sul proprio futuro. Sembra che questi bambini percepiscano che “pensare sia pericoloso” e ciò si ripercuote sugli apprendimenti soprattutto nelle materie di studio.
Nella maggior parte dei casi sono bimbi che fanno molta fatica a concentrarsi e a mantenere l’attenzione costante sul compito per un periodo sufficiente di tempo, basta poco per distrarli e la loro mente è occupata da pensieri molto legati al presente. Alcuni di loro non hanno ancora sviluppato il meccanismo di auto-regolazione del comportamento, quindi sono in balia degli stimoli siano questi interni che esterni, ed è praticamente assente la capacità di pensare sui meccanismi cognitivi coinvolti nei propri apprendimenti (meta-apprendimento).
È noto che l’attenzione prolungata richiede la presenza di un meccanismo d’attivazione che si attiva automaticamente e che riporta l’attenzione sul compito. Per la maggior parte dei bambini in età scolare questa abilità si struttura come un “meta apprendimento” e si esprime in maniera quasi automatica e in funzione delle regole del contesto. In alcuni casi questo meccanismo non è ancora completamente attivo con la conseguenza di un’insufficiente auto-regolazione del processo attentivo ed una compromissione della sfera emotiva e del comportamento sociale.
Per quanto concerne la competenza linguistica la maggior parte dei bambini che provengono da altri Paesi imparano l’italiano molto velocemente per quanto riguarda gli usi sociali, più lentamente per gli usi cognitivi e di solito non si rilevano delle difficoltà di tipo linguistico, che diano conto delle difficoltà evidenziate nell’apprendimento. Il livello semantico risulta carente e si evidenziano delle difficoltà nel porre relazioni, formare categorie e costruire un grado più elevato della contestualizzazione dei contenuti mentali.
Gli aspetti psicologici si presentano di solito (non sorprendentemente!) con un quadro simile a quello di bambini gravemente deprivati e/o traumatizzati, con significative inibizioni del pensiero. In questi casi può essere utile impostare un programma di riabilitazione dello sviluppo cognitivo linguistico anche al fine di creare le premesse necessarie per intraprendere un futuro eventuale lavoro psicoterapeutico. In generale, di fronte a situazioni d’apprendimento, alcuni assumono un atteggiamento passivo, poco consapevoli della propria situazione emotiva e non sembrano preoccupati o in colpa per i propri insuccessi scolastici, altri di fronte a richieste che non sono in grado di soddisfare, assumono un comportamento scontroso e di simmetria nei confronti dell’adulto, nel tentativo maldestro di fuggire a tale situazione.
I genitori riportano una situazione difficile anche a casa, fare i compiti è una “lotta” quotidiana, si sentono impotenti e sofferenti, sono confusi e non sanno come intervenire, esprimono la loro frustrazione di fronte agli impegni scolastici con frasi come: “lo fa apposta”, “non vuole capire”, “se fosse un bimbo stupido lo capirei ma quando vuole è molto intelligente”, “è svogliato”.
Nel caso delle abilità scolastiche troviamo che in genere non si manifestano delle difficoltà specifiche nella letto-scrittura, né ritardi significativi nelle acquisizioni scolastiche ma piuttosto delle difficoltà nell’uso autonomo delle funzioni logiche anche se gli aspetti formali risultano funzionali. Questi soggetti conoscono la meccanica della scrittura ma fanno molta fatica ad organizzare il contenuto seguendo una logica, a volte non sanno “cosa” scrivere. Le loro produzioni risultano molto concrete, sembrano dei semplici elenchi di caratteristiche, trovano delle difficoltà nell’esprimere pareri, giudizi e a collegare i propri vissuti emotivi con quelli degli altri personaggi o alle situazioni.
Il trattamento
Una volta valutata l’entità e la qualità delle difficoltà di apprendimento presentate dal bambino, si potrà passare al progetto di trattamento che sarà formulato in coerenza con i risultati emersi dalla valutazione effettuata.
Il trattamento deve articolarsi su di alcuni step molto precisi quali:
- Informare i genitori e il bambino sulla natura del disturbo e definire, insieme a loro le modalità educative per far fronte sia ai problemi d’apprendimento sia ai problemi di comportamento a casa e a scuola;
- Definire gli obiettivi riabilitativi su cui lavorare nelle sedute individuali;
- Definire, insieme alla scuola, gli obiettivi di lavoro che, solitamente, comprendono due ambiti d’intervento:
a. il primo è riferito all’ampliamento e approfondimento del lavoro impostato nel trattamento riabilitativo;
b. il secondo è riferito alle modalità più idonee per gestire i problemi di comportamento in classe;
Il lavoro con la scuola
Il lavoro con la scuola costituisce una parte imprescindibile del trattamento: davanti ad un bambino che ha problemi nell’apprendimento, qualsiasi intervento che sia centrato unicamente su di lui e/o sulla famiglia senza coinvolgere la scuola è destinato al fallimento. Se il minore è seguito da prima di iniziare la scuola è auspicabile che, all’inizio dell’inserimento, gli operatori che lo seguono incontrino gli insegnanti. A maggior ragione se gli operatori vengono chiamati in causa quando il bambino è già inserito a scuola per problemi relativi all’apprendimento sarà ancora più opportuno che gli stessi incontrino gli insegnanti al fine di definire una proposta d’intervento a scuola, fornendo informazioni sul bambino sia dal punto di vista relazionale sia dal punto di vista dell’apprendimento. Questo incontro, finalizzato a definire le linee guida della programmazione e la metodologia di lavoro, è molto importante per coinvolgere gli insegnanti nel progetto e consentirgli di avere una maggiore consapevolezza di quali sono le ragioni che stanno alla base del disagio del bambino. Non bisogna dimenticare, infatti, che gli insegnanti (insieme ai genitori, che hanno però un altro bagaglio di conoscenza e di coinvolgimento emotivo rispetto al figlio) sono spesso coloro che sperimentano quotidianamente “sulla propria pelle” le problematiche di comportamento e di apprendimento del bambino adottato. Quindi, è importante aiutarli a comprendere quali possono essere le cause del disagio del bambino e come queste sono, spesso, molteplici e complesse, permettendogli di uscire dalla schematizzazione, spesso utilizzata, per cui se un bambino non studia: o ha problemi di intelligenza, e quindi va “certificato”, oppure è semplicemente svogliato!
In questo modo è possibile assicurarsi la collaborazione con tutti gli interlocutori che operano sul minore al fine di stabilire una rete di azione coerente, indispensabile al raggiungimento degli obiettivi.